Il primo maggio di Benedetto Valentino


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 La festa del lavoro. E’ un ossimoro, perché lavorare non è mai una festa. Anzi, in napoletano, lingua colta e raffinata, lavoro si traduce con “fatica”. Perché il lavoro è una “fatica” in tutti i termini, sia mentali che fisici. Che non sia più un “diritto” ma un “dovere” nella società moderna lo capì per primo Jeremy Rifking che scrisse il famoso saggio “La fine del lavoro” pubblicato in Italia da Baldini e Castoldi nel 1995 emendando l’art. 1 della Costituzione italiana che lo volle a fondamento della Repubblica. E sono proprio le fondamenta della Repubblica che stanno cedendo per mancanza di lavoro_ se una Repubblica è fondata sul lavoro e il 50% dei giovani è disoccupato non c’è più la Repubblica. E’ di ieri la proiezione dei dati Svimez sulla Provincia di Napoli per i prossimi 30 anni: oltre 500mila giovani dovranno lasciare il nostro territorio per cercare lavoro in altre parti del mondo. Forse per questo celebriamo il lavoro un po’ come, si fa con le antiche “feste” che festeggiano una civiltà che non c’è più. Una sorta di sagra della vendemmia quando non ci sono più viti e terreni, ma solo case abusive. 

In questo, la filosofia del progresso esponenziale, della società “capitalistica” ha raggiunto il suo scopo: non ci siamo liberati dalla fame e dalle malattie, ma dal lavoro, dalla “fatica”. 
Siamo quasi come in un film di fantascienza dove gli uomini lasciavano fare tutto il lavoro alle macchine e occupavano il tempo a oziare e divertirsi. 
Peccato che, nella realtà, il “film” è un pò diverso. Con migliaia di disperati e affamati che cercano di sbarcare sulle nostre coste sperando di trovare un lavoro che gli dia dignità e che trovano invece altri disperati che un “lavoro” devono “inventarselo” perché non c’è. L’ origine della festa del lavoro risale a una manifestazione organizzata a New York il 5 settembre 1882 dai Knights of Labor, un’associazione fondata nel 1869 per ricordare le battaglie dei lavoratori ad un orario di lavoro determinato e preciso. Due anni dopo, nel 1884, i Knights of Labor approvarono una risoluzione affinché l’evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate all’Internazionale dei lavoratori – vicine ai movimenti socialisti ed anarchici – suggerirono come data della festività il Primo Maggio. Il primo Maggio è una festa d’amore ma anche di tradimenti: Di rappresentanti che hanno tradito il popolo dei lavoratori e del popolo che ha tradito i suoi rappresentanti. Chissà cosa direbbero oggi quei sindacalisti americani nel vedere un lavapiatti o un cameriere fare 12 ore al giorno in piedi e senza diritti o imprenditori che si suicidano. Il primo Maggio, comunque, vale la pena sempre festeggiarlo non perché è un “ponte” che porta turisti, ma perché ci ricorda le lotte per la dignità umana. Una dignità che, anche nella nostra isola, è sempre più difficile conquistare. Almeno per chi ne ha coscienza.

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